L’elemosina ai poveri è una manifestazione di misericordia strettamente connessa ai doveri di un buon cristiano. Per certi versi è anche una forma di giustizia, dal momento che tutti dovrebbero avere il diritto di possedere il necessario per vivere. Vediamo in quali casi è giusto praticarla.
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Fare l’elemosina è una forma corretta di carità? È giusto farla?
La domanda può sembrare banale, qualcosa a cui si risponde senza pensare, proprio come, senza pensare, a volte ci capita di allungare distrattamente una manciata di spiccioli nella mano tesa di qualcuno che ci chiede aiuto lungo la strada, o davanti alla chiesa. Un gesto fatto di fretta, senza riflettere, o, con altrettanta indifferenza, non fatto. In entrambi i casi, l’elemosina risulta come qualcosa di scomodo, spiacevole, negativo, per chi la fa (o non la fa), e per chi la riceve.
Ovviamente non dovrebbe essere così. Dobbiamo considerare l’importanza che la carità riveste nella vita e nella fede di un cristiano. Infatti si tratta di una delle virtù teologali, ovvero quelle virtù che dovrebbero essere alla base del vivere e dell’agire dell’uomo che vuole avvicinarsi a Dio e vivere nella Sua parola.
“Il dovere dell’elemosina è antico quanto la Bibbia. Il sacrificio e l’elemosina erano due doveri a cui una persona religiosa doveva attenersi. Ci sono pagine importanti nell’Antico Testamento, dove Dio esige un’attenzione particolare per i poveri che, di volta in volta, sono i nullatenenti, gli stranieri, gli orfani e le vedove” ha ricordato Papa Francesco durante l’Udienza Giubilare del 9 aprile 2016, dedicata appunto a Misericordia e Elemosina.
Carità come accoglienza, dunque, disponibilità verso il prossimo, volontà di mettersi al servizio degli altri, dei poveri, dei bisognosi, in nome di un senso di giustizia superiore, di un anelito a ciò che è giusto, buono, bello.
Carità ed elemosina nelle altre religioni
Anche i mussulmani rivestono di grande importanza questa virtù, che per loro si chiama zakat, ed è il terzo pilastro dell’Islam. Lo zakat è uno dei doveri religiosi più importanti per un buon mussulmano, e rappresenta un modo per saldare il debito che ogni uomo ha verso Dio per tutto ciò che di bello gli ha donato. Solo in questo modo l’uomo dimostra di meritare quei doni. Dice infatti il Profeta Muhammad: “La carità è un obbligo per ogni musulmano, e colui che non ne avesse i mezzi faccia una buona azione o eviti di commetterne una sbagliata. Questa è la sua carità.”
Gli ebrei esercitano una particolare forma di carità: la Zedaqah. Ma quali sono le differenze tra carità cristiana e Zedaqah ebraica?
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In un precedente articolo dedicato alle differenze tra Ebraismo e Cristianesimo ci siamo soffermati a parlare dell’importanza nella religione ebraica della Zedaqah. Si tratta di uno degli obblighi più imprescindibili per un buon ebreo, tanto da essere una delle tre azioni con le quali un uomo può rovesciare un decreto sfavorevole. Addirittura, i testi sacri ebraici affermano che la Zedaqah può salvare una persona anche dalla morte, e nel Talmud è scritto che essa vale più di tutte le altre mizvot (obblighi positivi e negativi per gli ebrei) messe insieme. Ancora nel Talmud si legge che ogni volta che una persona applica la Zedaqah, riceve personalmente la Presenza Divina. Per gli ebrei, dunque, la Zedaqah è strumento di redenzione e salvezza. Ma di cosa si tratta? Senza pretendere di elencare qui la lunga lista di precetti e regole legate alla Zedaqah, possiamo definirla una forma di carità, di elemosina. Per gli Ebrei è un precetto positivo, dunque un obbligo, dare ai poveri in ragione di quanto è loro dovuto, se si ha la facoltà per farlo, siano essi ebrei o non ebrei, membri della famiglia, amici, forestieri. Questa mizvà è definita da molti passi dei testi sacri ebraici, dove si legge per esempio: “Manterrai il forestiero, il residente e colui che vive con te” (Lev. 25: 35), o “Aprirai la tua mano” (Deut. 15: 8).
Non dobbiamo tuttavia confondere la Zedaqah ebraica con la carità cristiana. Le due pratiche infatti nascono da presupposti completamente diversi.
Il termine carità deriva dal latino “caritas”, amore, benevolenza. Dunque, semplificando molto, possiamo affermare che ogni forma di carità cristiana deriva dalla compassione, dall’amore, dall’empatia verso chi soffre ed e meno fortunato.
Per gli Ebrei non è assolutamente così. La parola Zedaqah significa “giustizia”, e non ha nulla a che vedere con i sentimenti che chi la pratica nutre per chi la riceve. Un buon ebreo deve per obbligo praticare la Zedaqah, perfino nei confronti di chi, a prima vista, non la merita. Deve farlo perché ha l’obbligo di farlo.
Ma come si opera la carità?
Per comprendere appieno il significato dell’elemosina basterebbe soffermarci sull’etimologia della parola stessa. La parola elemosina deriva dal greco “eleèo”, ho compassione, e non servirebbe altro per rendere manifesto il vero senso di questa parola e di tutto ciò che essa comporta.
L’elemosina è un modo per manifestare la propria carità, il proprio amore per il prossimo, la propria compassione. Ma bisogna fare molta attenzione a non cadere nell’illusione che basti elargire un’offerta materiale, monetaria, per essere in pace con la propria coscienza. L’efficacia dell’elemosina risiede unicamente nell’animo con cui essa viene dispensata, quello spirito di carità che dovrebbe essere alla base dell’agire di un buon cristiano. La carità andrebbe manifestata ogni giorno, in tanti modi diversi, e solo così essa diventa una forma di fede, la testimonianza della propria volontà di emulare Cristo, di imitarne l’esempio. Questo richiede impegno, energia, sacrificio, perché offrire la propria disponibilità verso chi è in difficoltà, offrire un conforto non solo economico, ma soprattutto umano, impiega molto più tempo e fatica di quelli necessari per aprire il portafogli e tirarne fuori qualche moneta.
Gesù stesso ci mette in guardia contro il modo sbagliato di fare l’elemosina, mossi solo da motivi egoistici, superficiali, meschini. Ai farisei Egli disse: “Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio” (Mt 16, 14-15).
Papa Francesco rincara la dose: “L’elemosina si fa guardando negli occhi il povero, coinvolgendolo, e dimostrando così un’attenzione sincera nei suoi confronti. Altrimenti è solo autopromozione pubblica, come quella di certi farisei del Vangelo.”
Non serve a nulla fare l’elemosina solo per lavarsi la coscienza, per esorcizzare lo spettro della povertà illudendosi di alleggerire lo stato di indigenza di qualcun altro, per farsi belli agli occhi degli altri, del parroco, della comunità. La carità è e deve essere prima di tutto un atto di amore, e in secondo luogo il riconoscimento di un atto di giustizia: tutti dovrebbero meritare di vivere degnamente, avendo almeno lo stretto indispensabile per farlo. Dio non vuole che i beni restino nelle mani di pochi, ma che essi appartengano a tutti, a tutti garantiscano dignità e sopravvivenza. Ciò che Dio ha creato appartiene a tutti.
Anche la raccolta delle offerte in chiesa, la cosiddetta questua, che ha l’obiettivo di sostentare la comunità religiosa e permettere alla parrocchia di investire in opere di carità per i poveri e i bisognosi, è una forma di elemosina imprescindibile per chi crede e frequenta abitualmente la chiesa. Donando qualcosa si dimostra la propria volontà di condivisione con gli altri fedeli e con chiunque abbia bisogno, sacrificando qualcosa che ci appartiene per il bene comune. Non a caso, essa avviene al momento della presentazione del pane e del vino, in procinto di diventare il Corpo e il Sangue di Gesù. Al Sacrificio per eccellenza di Cristo si unisce un piccolo sacrificio personale di chi si appresta a celebrare il mistero eucaristico.
A chi fare l’elemosina?
Dunque dobbiamo fare l’elemosina a tutti, indistintamente? Occorre operare delle scelte consapevoli. È vero che a nessuno andrebbe negato l’aiuto e la misericordia, nei momenti di difficoltà, ma è altresì vero che non è producente giustificare e alimentare fenomeni di accattonaggio e soprattutto di sfruttamento di persone più deboli e indifese, come possono essere i bambini o gli anziani o ancora i disabili.
Inoltre dovremo imparare a discernere i veri poveri da quelli che, per pigrizia o dolo, non vogliono lavorare per vivere, e si accontentano di quel poco che riescono a carpire a persone di buon cuore. Guai a incoraggiare certi comportamenti!
Chi chiede l’elemosina dovrebbe farlo solo per effettiva necessità, non come un lavoro, ed è un dovere preciso di un buon cristiano saper distinguere, anche per poter intervenire per aiutare in modo diverso chi, per scarsa conoscenza del paese o semplicità d’intelletto, vorrebbe disperatamente lavorare e potrebbe anche farlo, ma non sa trovare il modo.
In ogni caso sarà importante, nel fare l’elemosina, rispettare la dignità di chi la riceve, garantendo un legame, un contatto che vada al di là di quello scambio di monete. Stringere la mano, rivolgere uno sguardo, una parola gentile, perfino una carezza, sarà la forma di carità più preziosa e gradita non solo per chi la riceverà, ma anche agli occhi di Dio.