Madonna di Oropa: storia, tradizioni e il santuario mariano di Biella - Holyblog

Madonna di Oropa: storia, tradizioni e il santuario mariano di Biella

Madonna di Oropa: storia, tradizioni e il santuario mariano di Biella

Madonna di Oropa: la Signora Nera delle Alpi. Storia, tradizioni e il cammino vero il santuario mariano di Biella

Quando si sale verso Oropa, il mondo si fa pietra e nebbia. La strada s’inerpica tra curve strette e boschi secolari, e a ogni tornante il respiro cambia. Si fa più sottile, più attento. Poi, all’improvviso, la vallata si apre: un anfiteatro naturale, maestoso e silente. Al centro, il Santuario. C’è un momento preciso in cui tutto tace. Quando il primo sguardo incontra quello di lei. La Madonna di Oropa. Non parla. Non sorride. Ma guarda. Da secoli.

La statua della Madonna Nera di Oropa rappresenta uno dei simboli religiosi più importanti e antichi del Piemonte. Collocata nel suo magnifico santuario alle pendici delle Alpi biellesi, questa statua ha attraversato secoli di storia, diventando un punto di riferimento spirituale e culturale non solo per i fedeli locali, ma per pellegrini provenienti da tutto il mondo. Esploriamo insieme la ricchezza storica, le tradizioni e le peculiarità di questo straordinario esempio di fede mariana.

Perché è nera la Madonna di Oropa?

Non è scolpita nel buio. È diventata buia.

La statua lignea della Madonna con il Bambino, realizzata nel XIII secolo, non era originariamente nera. Il legno di cirmolo con cui è stata scolpita è infatti chiaro, quasi dorato. Ma nel tempo, qualcosa è cambiato. Ed è qui che iniziano le ipotesi. Cinque, almeno. Tutte suggestive. Nessuna definitiva.

La prima è simbolica. Alcuni studiosi suggeriscono che la statua possa derivare, per via iconografica o simbolica, dal culto della dea Iside. In Egitto, Iside veniva spesso raffigurata con la pelle scura: dea della notte che genera il sole, madre cosmica, archetipo della maternità e della protezione. Con l’arrivo dei culti orientali nell’impero romano e la successiva cristianizzazione, molte immagini della madre con bambino potrebbero aver subito una trasformazione. Da Iside a Maria. Da Horus a Gesù. Il colore, però, è rimasto.

La seconda è geografica. Le popolazioni celtiche e romane che abitavano il Biellese potrebbero aver accolto immagini del sacro da sud, dalla sponda mediterranea, da quel mondo mistico e colorato che era l’Egitto. In un tempo in cui le religioni si mescolavano, il volto scuro della divinità materna non era una stranezza, ma una possibilità. Queste teorie collegano l’origine delle Madonne nere ai culti della Grande Madre, o alla spiritualità dell’ombra. Non sono Madonne esotiche. Sono Madonne radicate. Dure, sacre, contadine. E Oropa è la più celebre di tutte.

La terza è materiale. Alcuni affermano che sia stato il fumo delle candele, secoli di devozione, incenso e fuliggine, a scurire lentamente la statua. Innanzitutto, il legno ha naturalmente subito un processo di ossidazione e invecchiamento. A questo si sono aggiunti i depositi di fumo delle candele e degli incensi che, per secoli, hanno avvolto la statua durante i riti religiosi. Infine, l’applicazione di sostanze protettive come oli e vernici ha ulteriormente scurito la superficie.

La quarta è biblica. Nel Cantico dei Cantici, Maria è descritta come “nigra sum sed formosa”: sono nera, ma bella. Così leggiamo inciso sullo scranno su cui siede un’altra famosa Madonna nera, la Madonna di Tindari. Questo versetto è stato letto nei secoli come un’allegoria mistica, un’esaltazione di una bellezza non convenzionale, lontana dagli ideali occidentali. Il nero, quindi, come segno di profondità, mistero, spiritualità. Come pelle esposta al sole, alla luce del divino.

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La quinta è storica. È possibile che la statua sia stata ridipinta nel XVII secolo, volontariamente, per aderire a una corrente artistica e spirituale che già circolava in Europa. Le cosiddette Madonne nere erano molte: Chartres, Montserrat, Einsiedeln. Oropa si inserisce in questa geografia sacra, forse per scelta, forse per osmosi. Se ne contano centinaia, dalla Francia alla Spagna, dalla Polonia all’Italia. Sono figure che parlano un linguaggio antico, spesso non scritto.

Quale che sia la verità riguardo la Madonna di Oropa, oggi non importa. Perché è proprio quel colore a renderla diversa. A darle la sua forza. A trasformarla in icona.

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Cosa tiene in mano la Madonna di Oropa?

I dettagli contano. In silenzio, parlano. Maria siede. Sul suo grembo, il Bambino Gesù. Lui tiene nella mano una colomba, chiara, simbolo dello Spirito Santo. Lei stringe un pomo dorato sormontato da una croce: un segno prezioso, aggiunto nei secoli. Il pomo richiama la mela del peccato originale. La croce, la salvezza. Nelle mani della Vergine, colpa e redenzione si toccano.
Non è una Madonna dolce. È una madre che custodisce. Forte. Immobile. Terrena e soprannaturale. Entrambe le figure sono riccamente abbigliate con preziosi manti e corone, aggiunti nel corso dei secoli come espressione della devozione dei fedeli. Questi ornamenti vengono periodicamente rinnovati e sono particolarmente elaborati durante le cerimonie dell’Incoronazione, che si svolgono con cadenza centenaria.
La posa ieratica e frontale della Madonna conferisce alla statua un aspetto solenne e maestoso, che ha contribuito a consolidare il senso di venerazione e rispetto che i fedeli nutrono per questa immagine sacra.

Il santuario della Madonna di Oropa a Biella

Il Santuario di Oropa non è un edificio. È un organismo vivente. La sua storia evoca suggestioni potenti. Un vescovo in fuga, una statua nascosta tra le rocce, una valle che diventa rifugio.
La leggenda vuole che sia stato fondato da Sant’Eusebio di Vercelli nel IV secolo. Un uomo di fede e di visione. Salì in quelle valli ancora pagane, dove la gente venerava i grandi massi erratici lasciati dai ghiacciai e pregava le antiche divinità femminili della natura. In quei luoghi, tra il silenzio delle montagne e il respiro degli alberi, Eusebio sostituì la pietra con la Parola, l’antica Madre con Maria. Così, almeno, vuole la tradizione. E anche se i documenti non confermano, il gesto resta vivo. Radicato.

A Oropa il sacro si è sempre intrecciato al selvatico, proprio come gli edifici hanno inglobato le antiche pietre. I primi documenti scritti compaiono nel XIII secolo, e parlano di due chiese: una dedicata a Santa Maria, l’altra a San Bartolomeo. La prima sorgeva accanto a un gigantesco masso erratico, detto gran deyro. Forse un altare precristiano, forse solo pietra. Ma ancora oggi è visibile nella parete nord della Basilica Antica. Una traccia, un’impronta.

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Nel 1294, quella piccola chiesa fu consacrata ufficialmente. Intorno ad essa crebbe il culto. E a cavallo tra XIII e XIV secolo, uno scultore valdostano intagliò la statua della Madonna Nera. Un legno che non ha ceduto al tempo. Un volto che non si lascia dimenticare.

Con il passare dei secoli, Oropa divenne rifugio, luogo di passaggio, destinazione. Nel Cinquecento le famiglie biellesi iniziarono a costruire case private per soggiornare vicino alla Madonna. Nel Seicento, fu il tempo dell’espansione barocca: il santuario assunse la forma attuale, a chiostro, come un grande abbraccio. Architetti illustri – Juvarra, Galletti, Guarini – lasciarono la loro impronta. La Porta Regia, la nuova facciata, le navate, le sacrestie.

Il cuore, però, resta la Basilica Antica, costruita nel Seicento come ex voto della città di Biella per la fine della peste del 1599. Sulla facciata, un’iscrizione accoglie il pellegrino“O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui”. Beato chi può vederti.

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Ogni cento anni, la statua viene incoronata. È accaduto nel 1620, poi nel 1720, nel 1820, nel 1920. E nel 2021, in pieno terzo millennio. Una nuova corona, nuove mani. Ma lo stesso sguardo. Lo stesso silenzio.

Nel Settecento si costruì anche il Sacro Monte, su un colle a ovest. Un percorso di cappelle che raccontano la vita della Vergine. Una narrazione scolpita nella pietra.

Mentre Oropa diventava centro spirituale, il mondo moderno si avvicinava. Nel 1911, una tranvia collegò Biella al santuario, rendendo il pellegrinaggio più accessibile. Durò fino al 1958. Ma i pellegrini, anche senza tram, non smisero mai di arrivare.

E poi ci sono le pietre. Quei grandi massi erratici che già gli antichi onoravano. Uno di essi fu inglobato nella Basilica Antica. Un altro – il Ròc – fu nascosto, secondo la leggenda, da Sant’Eusebio, per proteggere la statua dalla minaccia degli eretici. Sopra vi fu costruita una cappella. Fino al XIX secolo, le donne lo toccavano per invocare fertilità. Un gesto arcaico, ridotto con il tempo a un colpo sul fianco. Poi, chiuso da un cancelletto. Ma mai dimenticato.

A Oropa, ogni pietra racconta. Ogni costruzione è una pagina. Ogni passo è un’eco. E la fede – come l’acqua tra le rocce – scava, conserva, trasforma. L’ambiente naturale circostante, con i suoi boschi e sentieri, arricchisce ulteriormente l’esperienza di visita, offrendo la possibilità di unire la dimensione spirituale a quella del contatto con la natura.

madonna di oropa

Attorno alla statua della Madonna Nera di Oropa si stringe una trama fittissima di racconti, testimonianze, segni e stupori. Alcuni sono semplici. Altri sorprendenti. Tutti, però, sfuggono alla logica del tempo.
C’è il corpo stesso della statua: intatto. Nonostante i secoli, nessuna tarlatura, nessun logoramento. Ne parlava già, nel 1609, il vescovo Giovanni Stefano Ferrero. Anche il piede della Vergine, che per lunghi anni toccò oggetti e reliquie destinati a malati e devoti, è rimasto liscio, intatto. E poi c’è il volto. Ogni anno, durante la pulizia solenne che precede la festa del 21 novembre, i canonici passano un panno bianco sulla statua. Sul corpo si solleva un velo di polvere. Ma sul viso, no. Mai. Il panno resta immacolato. Dal 1800 questo gesto è pubblico, perché tutti possano vedere.
Due volte, raccontano le cronache del Seicento, si tentò di spostare la statua verso Biella. Ma la Madonna divenne inspiegabilmente pesante, tanto da rendere impossibile il trasporto. Solo tornando verso il sacello originario, il peso si alleggerì. In memoria di quel rifiuto, furono costruite due cappelle votive: una a Favaro, l’altra a Pralungo. Come a dire: “Io resto qui”.
E quando Biella fu minacciata dalla peste, fu a Oropa che si volse lo sguardo. Tre volte, nel 1522, nel 1599, nel 1630, la città invocò la protezione della Madonna Nera. E tre volte il contagio cessò. I documenti civili e le processioni di ringraziamento parlano chiaro. La gratitudine prese la forma di quadri, lampadari, ex voto. Segni di fede, segni di salvezza.
Alcuni prodigi, tra i molti attribuiti a Oropa, furono indagati e riconosciuti dalla Chiesa. Tre, in particolare, entrarono nei processi canonici: un uomo a cui ricrebbe la lingua dopo anni di mutismo; un paralitico che, guardando un’immagine della Vergine, si alzò in piedi dopo diciotto anni di immobilità; un prigioniero dei Turchi, mutilato, che ritrovò parola e lingua nel momento esatto dell’incoronazione del 1720. Nessuno cercava clamore. Ma la voce si sparse. I processi raccolsero testimoni, medici, giuristi. E i miracoli furono registrati.

Oggi, nei corridoi del Santuario, si cammina tra migliaia di ex voto. I più antichi risalgono al Trecento. I più recenti sono fotografie, lettere, piccoli oggetti quotidiani. Alcuni sono opere d’arte. Altri, disegni ingenui, nati da mani commosse. Ogni quadro racconta una grazia. Ogni oggetto, una speranza esaudita. E se si scorrono i registri del Santuario, si legge un inventario dell’anima: ciechi che riacquistano la vista, donne salve dal parto, naufraghi sopravvissuti, corpi guariti, cuori convertiti. Anche città intere, interi popoli, sovrani. C’è tutto, a Oropa. Dolore e sollievo. Implorazione e canto.
Perché da secoli, tra quelle mura e quelle montagne, la Madonna ascolta. E a volte risponde.

La pulizia della statua della Madonna di Oropa

C’è un momento, a Oropa, in cui il tempo rallenta. Le porte si chiudono, le voci si abbassano, gli occhi si fanno attenti. È il tempo della cura. La Madonna viene spogliata. Accade ogni novembre. Un gesto. Piccolo, potente. Intimo.
Il sabato prima del 21 novembre, festa della Presentazione di Maria al Tempio, la Madonna viene tolta dal sacello e portata davanti ai fedeli. Non per una devozione, ma per un gesto semplice: la pulizia.
Un panno di lino, nessun prodotto. Solo mani rispettose che accarezzano il legno. Ma c’è di più. Da sempre, si racconta che sul volto della Vergine e del Bambino non si posi mai la polvere. Ogni anno, i presenti lo vedono. E ogni anno, lo raccontano.
Alla fine del rito, viene distribuito ai fedeli un piccolo lino, identico a quello usato dai canonici. Perché ciascuno possa sfiorare la Madonna. Una carezza che si trasforma in promessa.

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Durante le grandi Incoronazioni, quelle che accadono ogni cento anni e segnano una nuova epoca, la statua della Madonna Nera viene sottoposta a un’attenta operazione conservativa. La si sfiora con strumenti delicati, si rimuovono i depositi, si consolida ciò che potrebbe cedere. Non si usa nulla che possa aggredire il materiale: solo tecniche dolci, pazienti, rispettose. Ogni passaggio è guidato da restauratori esperti, sotto l’occhio vigile delle autorità per la tutela dei beni culturali.
Ma c’è un momento, brevissimo, sospeso, in cui la Madonna è nuda. Senza i suoi veli, senza le corone, senza l’oro. Solo legno, forma, silenzio. Quasi nessuno può vederla così. Solo chi la custodisce. Solo chi la conosce davvero. Perché quel momento è sacro, fragile, irripetibile.

Poi torna tutto al suo posto. I manti vengono riallacciati, le decorazioni riposizionate con attenzione. La statua viene ricollocata nel sacello della Basilica Antica, al centro del suo trono. E la Madonna, silenziosa come sempre, torna a guardare. I fedeli, i visitatori, gli sguardi che la cercano.
Da fuori, nulla sembra cambiato. Ma chi l’ha vista in quel momento di verità lo sa: la cura non è solo tecnica. È un atto d’amore.